In questa intervista esclusiva con Simona Malato, talentuosa attrice siciliana che ha conquistato il cuore del pubblico con la sua intensa interpretazione in due film di grande successo: "Stranizza d'Amuri" di Giuseppe Fiorello e "Misericordia" di Emma Dante, entrambi presentati alla prestigiosa Mostra del Cinema Italiano di Barcellona lo scorso dicembre, mi sono addentrata nel suo mondo, esplorando la sua vita, la sua carriera e in particolare i retroscena della realizzazione di questi due progetti forti e significativi. Entrambi affrontano tematiche socialmente importanti e toccanti, regalandoci una prospettiva profonda sulla realtà e sulla condizione umana. Ho cercato di scoprire i dettagli della lavorazione di "Stranizza d'Amuri" e "Misericordia", esplorando il processo creativo di Simona nel dare vita ai suoi personaggi. Attraverso le sue parole, avrete l'opportunità di comprendere le sfide e le emozioni che ha affrontato, nonché il suo impegno nello studio dei ruoli, contribuendo così a rendere questi film autentiche opere cinematografiche. Un viaggio attraverso la passione, l'impegno artistico e la profondità emotiva di Simona Malato vi attende. Accendete la vostra curiosità e immergetevi nell'universo artistico di questa interessante attrice siciliana. Il successo di “Stranizza d’Amuri” di Giuseppe Fiorello e “Misericordia” di Emma Dante anche in Spagna a Barcellona che cosa ha voluto dire per te e che emozioni ti ha provocato? “Quando ho ricevuto l’invito per la partecipazione al festival di Barcellona, nell’oggetto della mail era stato nominato solo Misericordia, in comune accordo con Emma Dante che non sarebbe potuta essere presente, abbiamo deciso che sarei stata solo io a presentare il film. Quella fu una prima bellissima notizia poi però continuando a leggere la convocazione mi sono resa conto che anche Stranizza d’amuri era stato selezionato per l’evento…. e a quel punto ovviamente sono saltata sulla sedia perchè sono 2 film che amo tantissimo, sono vicinissimi tra loro, ho lavorato quasi contemporaneamente a entrambi; infatti mentre giravo Stranizza, lavoravo gia’ al personaggio di Betta del film di Emma. Con lei è stato un lavoro lunghissimo, perchè dovevamo farsì che funzionasse quello che aveva prefigurato per me, perchè questo personaggio lo aveva scritto pensando a me, ma Emma non lascia nulla al caso, quindi dovevamo passare dal quel corridoio stretto di confronto con Simone Zambelli e con le altre attrici. Doveva creare quel nucleo familiare come se lo era immaginato, doveva vederci insieme. Per cui ritornando alla domanda, posso dire che entrambi i film per mia fortuna sono 2 progetti che sono stati 2 famiglie, sono 2 lavori che hanno toccato il mio cuore. Questo perché abbiamo lavorato in entrambi i set con la finalità di creare un spazio di grande cura reciproca, familiare e confidenziale, e probabilmente anche per i temi che abbiamo trattato. Sia Beppe che Emma sono 2 registi che in diverso modo vogliono toccare il cuore e sensibilità dello spettatore ma prima ancora vogliono attraversare questa sensibilità nella carne degli attori e di tutta la troupe. In entrambi i progetti non c’è stata differenza tra cast artistico e tecnico. E’ stato un grande lavoro collettivo e di creazione con 2 grandi capitani di 2 navi che salpavano verso 2 grandi avventure; Lo scopo di tutti era quella di portare a casa un’opera umana sia per i contenuti trattati che per l’energia che scorreva tra di noi. Per cui io mi sento molto onorata di rappresentare questi 2 film, perche l’onore proviene proprio dal fatto che rappresento in entrambi i casi il lavoro di tutti i miei compagni. Ho accettato inoltre di essere qui a Barcellona perchè ho dato l’anima in tutte e 2 le vicende, nel senso che i 2 lungometraggi non sono stati solo dei lavori fini a se stessi ma progetti che mi rispecchiano; quindi solo qui a portare queste 2 storie quasi come se fossero i miei figli, accompagnandoli e vedendoli con il pubblico”. Come vivi l’esperienza di condividere una proiezione cinematografica insieme al pubblico in sala? “Vedere il film in sala con il pubblico è un’esperienza profonda e intensa. Con i ragazzi nelle scuole è un momento empatico fortissimo, loro esultano e vivono in maniera intensa le storie, per esempio quando Lina parla con Gianni con violenza, l’hanno insultata o quando i du protagonisti si sono baciati c’è stato quasi un urlo da stadio. Il cinema deve fare questo, deve smuovere il pubblico”. 2-3 momenti fondamentali sia personali che professionali che hanno cambiato la tua carriera di attrice. “Un momento importante è stata la crisi con i miei genitori quando ho deciso di lasciare l’università e fare teatro. Studiavo psicologia ma mi sono laureata solo in un secondo momento perché inizialmente ho lasciato il percorso accademico a 6 esami prima della laurea. Ho abbandonato gli studi nonostante fossi alla fine perchè mi ero infilata in un progetto teatrale per me molto scioccante e decisivo. Si trattava di un lavoro di Claudio Collovà regista di Palermo, che considero il mio primo maestro, che all’epoca lavorava al Malaspina con i ragazzi del carcere minorile. Io ero ancora un’ allieva che entravo in un cast di attori già professionisti di alto livello come Filippo Timi per cui mi rapportavo con persone che mi hanno insegnato molto. Eravamo un grande cast, un insieme di energie differenti, un lavoro collettivo, facevamo quello che per me è il teatro: nessuno insegnava a qualcuno ma ognuno imparava dall’altro. Tra attori e i ragazzi del carcere c’è stato uno scambio di insegnamenti. Il teatro deve essere un apprendimento continuo. Emma Dante è stato un altro incontro importante nel mio cammino, mi ha portato fuori da Palermo. All’epoca facevo “Palermu”, un suo primo spettacolo in tour per l’Europa. Essere in giro per il mondo, fare di continuo lo stesso spettacolo e cambiare pubblico e’ stata una formazione e un master continuo, ho imparato moltissimo. Altro momento decisivo è stato l’incontro con il regista e drammaturgo polacco Krystian Lupa; per me è stata una folgorazione, mi ha rivoltato come un calzino. Ero arrivata a un momento un po’ di stasi in cui le cose le fai quasi in maniera automatica, ad un periodo di crisi. Lui è arrivato al momento giusto, sono rinata. Vorrei inoltre citare un altro progetto che è stato determinante nella mia vita: il collettivo femminile nato 12 anni fa di cui faccio parte. Siamo un gruppo di 19 attrici dirette da Letizia Quintavalle, regista di teatro dell’infanzia da 30 anni. Ognuna di noi lavora nella propria regione e raccontiamo ai bambini dagli 8 ai 12 anni l’Antigone”. Cos’è per te il teatro? “Per me il teatro è un apprendimento continuo, il lavoro del teatro è un dono, un arricchimento in divenire, mi sento fortunata e lo vivo con meraviglia. La compassione e la gratitudine sono fondamentali in questo mestiere. Il personaggio di Lina di Stranizza mi ha insegnato molto. Nasco come attrice di teatro quasi autodidatta, non ho avuto una formazione accademica. La mia prima esperienza con Claudio Collovà mi ha insegnato che dovevo trovare i miei maestri da sola, cercavo nel cast le persone con cui volevo lavorare. A 25 anni ho iniziato a fare danza classica perchè dovevo lavorare sul mio corpo con disciplina e regole; questa auto formazione è stata un momento importante per quello che sono oggi. A 23 anni, quando è iniziato tutto, mi chiedevo che stessi facendo. Mi sentivo una ladra perchè volevo fare la psicoterapeuta e all’improvviso invece ho deciso di fare l’attrice, mi sembrava ormai tardi e non avevo nessuna formazione accademica. Soffrivo molto e sentivo che c’era qualcosa che potevo fare e dare ma non trovavo la mia strada. Avevo molta confusione ma questa è stata sempre la mia forza. Quando non c’è questo disordine, questo senso di non avere il pavimento sotto i piedi, se non c’è questa inquietudine nel mio mestiere, lavoro male, cerco spesso di mettermi in difficoltà. Credo sia una cosa inconscia, quando un progetto mi risulta facile, mi viene male. Il lavoro dell’attore ognuno se lo deve inventare, non c’è un unico modo sebbene ci siano delle tecniche e abbia dei miei registri, ma “ i muri alti”, le difficoltà mi piacciono”. Parlami del tuo personaggio Lina “Lina l’ho capita subito, nel mio approccio al personaggio dialogando con il regista Beppe Fiorello non abbiamo parlato molto, perchè lui già mi aveva scelto sapendo che io dovevo essere Lina, era sicuro di questa mia interpretazione; e in realtà non aveva sbagliato perché ho intuito subito cosa voleva questa donna da me, mi ha parlato immediatamente e molto chiaramente dicendomi “o mi fai cosi o non mi puoi fare”. Sono arrivata a lei, mi sono avvicinata al suo essere conoscendo Samuele, il ragazzo che ha interpretato Gianni. Nutrendomi di lui, di questo giovane attore, ho trovato i modi in cui Lina poteva parlare con questo suo figlio. Poi durante lo studio del personaggio ad un certo punto mi sono arrivate in aiuto delle donne della mia infanzia, che mi incuriosivano molto quando ero piccola. Mi tornavano in mente, mi arrivavano dei ricordi dall’infanzia e delle immagini di come erano. C’è quindi sicuramente qualcosa di mio in Lina che è generazionale ma non diretto”. Le tue figlie ti aiutano nell’interpretare il ruolo di una mamma? “Si certo mi aiuta molto essere mamma, in questo caso però si trattava di essere madre di un ragazzo, era tutta un’invenzione. Quindi ho creato una relazione speciale grazie al rapporto che si è creato con Samuele”. Lina è un personaggio cosi’ contradditorio e duro che si può addirittura odiare, entrano però in gioco diverse parti molte diverse tra loro, me ne puoi parlare? “Lei è una donna con i suoi problemi e vive male nella sua comunità, ha infatti il peso della vergogna di non essere sposata. Ho lavorato sul sentimento di essere impetuosi verso se stessi. E’ una mamma molto dura e severa. Forse la sua anima leggera, di bambina arriva solo nel momento in cui immagina che qualcosa possa cambiare nel futuro, ma questo sentimento viene subito modificato dal suo essere senza pietà verso se stessa. Come tutti quei genitori che proiettano sui figli la propria vita, Lina fa la stessa con Gianni, forse se avesse abitato in una città e non nella sua stretta realtà sarebbe scappata via con Samuele. Non avrebbe mai urlato al mondo siamo fatti così, ma lì non poteva scappare, non credeva nel cambiamento. Il personaggio lo interrompo, Lina è costruita a metà, è come se non vivesse fino in fondo tutto, vorrebbe fare ma non ci riesce e non lo fa. La prima scena che ho girato è stata quella della telefonata che Lina fa alla mamma dell’altro ragazzo, una scena che non avevo capito bene in fase di lettura della sceneggiatura, non sapevo fino a dove doveva spingersi lo script. Quella mancanza di parole nel testo e dell’ interlocutore dall’altra parte del telefono (ovviamente recitavo non parlavo realmente con nessuno) mi ha fatto pensare alla vita spezzata di Lina. Questo è stato il battesimo del mio personaggio. In questa scena viene fuori tutta la cattiveria di Lina ma anche la sua frustrazione, il suo essere sempre a metà e la sua vita non compiuta. “Tuo figlio ha tutta la vita davanti, Gianni è com’è…..” in quel momento Lina proietta sul figlio come si sente lei: Una vita spezzata”. Come ti sei approcciata e hai interpretato una donna realmente esistita protagonista di un fatto terribile e delicato realmente accaduto? “Tutto il cast ha avuto rispetto per questa storia vera e mi sono chiesta "come la faccio questa donna se non mi torturo un po’?" Ho sofferto per cercare di capire questo fatto terribile, per rispettare una persona vera che ha vissuto una storia così complessa e delicata; non oso immaginare come Lina abbia vissuto il resto della sua vita; anche se faccio l’attrice e cerco di essere vicina alla verità non si può avere la pretesa di sentire cosa provasse una donna in una situazione del genere”. C’è stata una scena particolarmente complicata in Stranizza? “Si, la scena della telefonata come già ti ho spiegato. Ma alla fine mi sono buttata ed è uscito quello che ho raccontato. Nella scena del ballo con Samuele invece stavo male fisicamente e fuori pioveva, ma nonostante tutto è venuta fuori una grande scena d’amore tra una madre e un figlio”. Cosa rappresenta e che peso ha oggi Stranizza d’Amuri ? “Ha un valore universale, è una storia che non ha tempo e spazio. Questa cosa l’abbiamo percepita con il pubblico durante il tour. Tante le reazioni di chi ha visto il film che mi hanno fatto riflettere sulla forza universale del film, una spettatrice per esempio fuori dal cinema mi ha detto: “Ma lei facendo questo personaggio ha rovinato tutti i sacrifici che un madre di un omosessuale fa per accettare il proprio figlio”; questa cosa mi ha colpito molto, così come la risposta di tanti ragazzi omosessuali ma anche etero che hanno fatto fatica ad accettare la storia. Questo perchè il film parla del problema in generale della non accettazione della diversità, tema centrale del film. La diversità e l’incapacità di accettare chi è diverso da te non solo come singolo individuo ma come comunità è il cuore della storia. La cosa violenta è che questi i ragazzi sono stati assassinati da tutto il paese, purtroppo è così. Ciò che è successo a Giarre negli anni’ 80 succede in tutto il mondo ancora oggi”. Partendo dal tema della diversità vorrei collegarmi a Misericordia. Film molto forte, violento e duro. Anche qui hai un ruolo difficile e complicato. Chi è Betta, come sei diventata lei? Anche qui sei una specie di mamma difficile. “Betta è una madre che da sola non andrebbe da nessuna parte, si ritrova a fare la mamma insieme alle altre 2 prostitute. Tra le 3 lei è la figura materna di quello strano nucleo familiare”. E’ una donna sbrigativa, d’istinto e dura”. Quale delle 2 sceneggiature ti ha colpito di piu’? “In realtà non riesco a fare un paragone tra le 2 storie, non c’è un di più perché appartengono a 2 mondi completamente diversi, non c’è stata una che ha superato l’altra. Tra i 2 personaggi però sicuramente ho amato tantissimo Betta. E’ una donna che è rimasta bambina, molto vicina alla sua parte infantile però sa anche che deve sopravvivere, “deve “magna’”, sa quanto è dura la vita. Nello stesso tempo è inoltre un personaggio ironico, fa il minimo indispensabile per arrivare a fine giornata, quando può scappa dai suoi compiti. E’ ovviamente una donna lontana da me però di mio c’è il suo aspetto maniacale per l’ordine e per la precisione sebbene viva in una catapecchia”. Perchè il titolo Misericordia? “La misericordia è qualcosa che ha a che fare molto con l’essere umano. È accoglimento e prendersi in cura un altro, quasi un portarsi addosso un’altra persona, è qualcosa fatta per l’altro senza un contraccambio. E’ un atto di dare senza ricevere. Rappresentiamo con la nostra misericordia la salvezza di Arturo, il figlio quasi adottivo che vive una situazione di ritardo mentale, centro intorno al quale gira la storia”. Voi vi salvate da questa crudele realtà? “C’è qualcosa di animalesco in questi personaggi, loro in qualche modo si salveranno sempre, sono donne pronte a tutto e capaci di cavarsela anche se la montagna dove vivono, da una parte madre e casa che le protegge, dovesse cadergli addosso e trasformarsi invece in mamma cattiva e mortale". Ambienti animaleschi e forti, crudi e veri, che legame hanno con i personaggi della storia? “Abbiamo girato a monte Cofano vicino San Vito lo capo. E’ una riserva naturale dove le falesie si staccano davvero, è un promontorio enorme sul mare, un posto mostruosamente affascinante. E’ un dio, un luogo spirituale. E’ una natura sia cruda che magnanima, è come una lingua di terra- madre che li accoglie con le sue baracche e nello stesso momento luogo di morte. La montagna è come una quarta madre dura e cattiva. Per contagio quindi i personaggi hanno preso il selvaggio di questo posto. Tutto è animalesco e inaccettabile, tutti sono ridotti ad uno stato quasi primitivo. Ma questo stato “naturale” in cui vivono è forse il migliore per Arturo. Qui voglio citare Emma Dante secondo la quale la montagna degradata è il luogo più giusto per il protagonista, lui va via per essere mandato in un istituto per avere una vita più dignitosa ma in realtà sta bene in quello spazio sospeso perché lui è mare, montagna, è un tutt’uno con l’ambiente. E’ un ragazzo disabile che vive in maniera naturale la sua diversità”. Qual è la forza di questo film che lo hanno reso quello che è? “E’ un grumo che si scioglie. Questo film pretende tanto dallo spettatore, gli chiede di prenderselo il grumo, di viverlo, di stare male. Soltanto con la presa di coscienza di questo nodo alla fine chi guarda la storia potrà sciogliere questa dura matassa e capirla. E’ un film molto difficile per il pubblico, devi cadere in quel selvaggio e stare anche male per capire e amare Misericordia”. Può essere un insegnamento Misericordia? “Non lo so se chiamarlo insegnamento, ma credo che la violenza e il degrado facciano paura, ma in quanto esistono bisogna affrontarli con coraggio per sconfiggerli ed evitarli. Anche il male va vissuto per poter capire la salvezza”. Simona Malato alla Mostra del cinema italiano di Barcellona |
AutoreCarlotta Bonadonna Archivi
Giugno 2024
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