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Poesie e riflessioni

Il glicine della memoria. Finalista all'Etnabook 2019

6/19/2020

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Tra i 5 finalisti all'Etnabook festival 2019, Sezione: un racconto in una pagina

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Come ogni mattina camminavo lungo le siepi di quel giardino tanto amato e nello stesso tempo tanto odiato. Conoscevo ogni foglia, petalo caduto, ogni fiore lo chiamavo per nome. C’erano dei cespugli che paragonavo alle mie vecchie zie, guardandoli mi venivano in mente le loro teste ricoperte da acconciature tremende, sempre spettinate, poco curate e in alcuni punti stempiate. Cespugli una volta in fiore, forse come erano loro, ma oggi da quando il signor Luigi, guardiano della villa, non abitava più erano in uno stato di assoluto abbandono.
Da quando il signor Luigi è andato via il giardino della mia casa- prigione non è più lo stesso.
Da anni non esco più di casa, l’unica libertà che mi prendo è gironzolare tra gli alberi e le aiuole del parco. E’ immenso, in alcuni angoli è baciato dal sole, dove amo sdraiarmi sul prato e leggere un buon libro.
Ci sono fiori che tratto come figli e che curo con amore e passione tutti i giorni. Dopo la morte di mio padre da circa 2 anni non esco più di casa, lo so, è strano ma proprio non ci riesco, sono bloccata, intimorita dal mondo fuori. Mamma mia una volta ero una grande viaggiatrice, non mi fermava nessuno, questa casa praticamente non la conoscevo, non sapevo nemmeno che ci fossero così tanti fiori e verde. A volte mi costringevo a rimanere un po’ con la mia famiglia.
Oggi invece, sono sempre tra le mura di casa o meglio ingabbiata tra i cancelli del giardino. In questi due anni mi sono innamorata di ogni germoglio e bocciolo che con amore   innaffio e coccolo ogni giorno.
A parte le zie, i cespugli dietro casa, che proprio non riesco a guardare, adoro ogni vicolo e pietra. Ci sono zone meno curate, abbandonate perché erano le aree di mio padre, dove si dedicava al giardinaggio e alla pittura e che ancora non riesco a rivivere.
Ma ieri è successo qualcosa di strano, come prima accennato, … ogni mattina camminavo lungo le siepi di quel giardino tanto amato… quando un profumo nuovo, inebriante e pungente mi ha completamente rapita anzi stordita. Porca miseria, come sotto l’effetto di uno stupefacente mi sentivo drogata da quell’ondata di freschezza che sembrava dovesse spaccarmi le narici. Ho lasciato i miei soliti pensieri sulle zie spettinate e con un po’ di paura ho seguito quel profumo.
Più andavo avanti e più mi rendevo conto che mi avvicinavo alle zone inesplorate che erano di mio padre, a quello spazio che io chiamavo “oltre la memoria”. Mi manca mio padre e non sono ancora pronta a ritrovarlo a riviverlo, almeno lo pensavo fino a ieri. Piano piano e con paura mi sono ritrovata davanti ad un vecchio gazebo in ferro, arrugginito e ricoperto di glicini pendenti, viola come la tunica che il prete usa durante la quaresima. Mi sono avvicinata a questo color lutto e man mano che osservavo i fiori la sfumatura abbinata alla morte diventava un colore vivo e vitale. Questi glicini erano bellissimi. C’era un vecchio dondolo sotto il gazebo dove mio padre credo dipingesse. Mi sono seduta e completamente drogata dal profumo dei grappoli dei fiori rivedo mio padre seduto accanto  a me a dipingere un mio ritratto mentre io lo fissavo dall’altra parte della tela. All’improvviso un petalo viola mi è caduto sul volto, mi è sembrata come una carezza venuta da un altro mondo, quasi ultraterrena, trascendentale a quello che stava accadendo. Ho sentito improvvisamente la mano di mio padre accarezzarmi il volto. Inutile dirvi che sono scoppiata a piangere, ma un pianto di gioia. Era come se mio padre mi avesse invitato a raggiungerlo in quel posto, a ritrovarlo, a non aver paura di lui. Ero emozionata e scossa e mi era venuta un gran seta, avevo la bocca secca dallo shock. Mi sono guardata intorno e dopo essermi alzata dal dondolo ho cercato come una diseparata qualcosa da bere in quell’angolo dimenticato da tempo. Ma non sarebbe stato possibile trovare se non alcune sue vecchie bottiglie vuote, qualche caraffa di acqua piovana e impolverate lattine di birra.  Invece rovistando dentro un vecchio armadietto di legno, ho scoperto una improbabile bottiglia di liquore al mandarino che faceva mio padre. Era chiusa, intatta, sembrava essere lì per me. Un brivido di emozione e incredulità insieme. Era il mio liquore preferito che bevevo sempre con lui. Ho deciso di aprire la bottiglia, un solo sorso mi ha fatto ritornare alla mente le passeggiate con lui nel parco e le chiacchierate sui miei viaggi. Un passato dimenticato, volutamente fossilizzato era di nuovo presente. Ero felice, ero in uno stato di godimento, mi sentivo lentamente ritrovare quella parte di me accantonata, ma qualcosa ha distratto i miei pensieri. Ho visto avvicinarsi in un volo danzante e armonico una farfalla stupenda, mai vista prima. Anche loro le conoscevo tutte, la mia grande passione. Le consideravo come delle amiche, a volte gli raccontavo dei miei amori appassiti come le margherite dell’ingresso vicino al cancello principale. Questa farfalla era ipnotica. Senza rendermene conto la seguivo senza capire dove mi volesse condurre. L’ho rincorsa e siamo arrivate fino all’ingresso del cancello che era aperto. Alla vista dell’uscita mi sono fermata, paralizzata, per la prima volta un dubbio, la voglia forse di oltrepassare quelle ringhiere e riscoprire la vita fuori. La farfalla proprio sulla soglia dell’uscita mi si è delicatamente appoggiata sulla mano, mi guardava come se volesse dirmi “Io devo andare, vieni via con me, esci vola di nuovo nei tuoi viaggi”. E’stata circa un minuto. In quel momento ho capito che dovevo seguirla, continuare il mio volo con lei aldilà del cancello. E così è stato, sono seduta in una splendida spiaggia in una incantevole isoletta greca, sorseggio un profumato bicchiere di liquore al mandarino e ritraggo mio padre guardando una sua vecchia foto mentre dipingeva sotto la cascata di glicini del suo amatissimo gazebo.
 
 
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Intervista ad una corazza

6/19/2020

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Da un esercizio di Antropo-teatro è venuto fuori questo:

Era una mattina come tante, stavo facendo una passeggiata per il centro del mio piccolo e monotono paese. Da quando ero piccola esisteva all’angolo con il fruttivendolo, uno squallido e insignificante museo di antiche corazze e armature medievali. Credetemi mai entrata… mai venuta la curiosità di mettere piede là dentro. Stavo quasi per arrivare a casa quando cazzo! un acquazzone  incominciò a bagnarmi dalla testa ai piedi, non sapendo dove ripararmi, l’unico posto possibile dove salvarmi, era il museo. Ebbene mi ritrovai in quello stanzone squallidissimo, impolverato e sporco. C’ero solo io e la guardiana. Era gratuito. Mi fece accomodare su una sedia in un angolo lontana da lei. Intorno a me solo armature e silenzio. Non voleva smettere di piovere, ero stanchissima e i miei occhi non ce la facevano più a stare aperti. La guardiana mi chiese all’improvviso se volevo fumare una sigaretta con lei. Io le risposi che c’era già abbastanza fumo dovunque.
Non si vedeva nulla, avevo gli occhi lucidi, poi una voce, sembrava la pronuncia di una ragazza o una signora, comunque una donna. Non era la guardiana, troppo vecchia. Poi dietro quella montagna di fumo mi apparve questa simpatica donna. Era bella, ma molto esile, con le spalle ricurve, intimidita, quasi impaurita. Le chiesi se avesse paura, lei mi rispose di si.  A quel punto le domandai perché provasse quella sensazione, perché fosse in quella postura di chiusura, era troppo bella per rimanere quasi invisibile. Mi rispose che aveva timore di tutto, che era rimasta fregata dalla vita, troppe delusioni e fallimenti. Che era debole, che non riusciva a difendersi…. Bho? rimasi molto scioccata da quelle parole. Le dissi allora che doveva difendersi, doveva indossare una corazza. A questa parola lei mi guardò sbalordita e mi chiese,  una corazza? Io  “non sai che cosa sia?  Non è possibile che tu non lo sappia”. Lei replicò che lo sapeva benissimo, ma che non voleva assolutamente andare in guerra,  diventò nervosa, mi attaccò dicendomi che ero una persona violenta, che amavo la guerra… io??? Io che non sono capace di uccidere una zanzara. Ero  meravigliata, continuava a dirmi che la corazza era un’ armatura, un oggetto che serviva solo per fare la guerra.  Un pezzo di ferro orribile, cattivo, che non è utile a nulla se non per fare del male agli altri. Io le spiegai che era anche una protezione, un mezzo per difendersi, un oggetto importante in caso di attacco dal nemico. E lei: “Che cos’è una protezione?” Io:” Serve per difendere la tua anima, la tua personalità, la tua identità. Lei mi raccontò a quel punto che la sua anima era a pezzi, che non ritrovava più la sua  integrità, che era smarrita, disorientata. Cercai di farle capire che le cose hanno sempre due facce, a secondo di come le guardi, tentai di spiegarle in che modo doveva vedere la sua corazza:“La corazza cade quando siamo felici, decidiamo di toglierla quando ci sentiamo protetti. La corazza ce l’hanno i più sensibili, quelli con più ferite, quelli che hanno sofferto, quelli che hanno combattuto 1000 guerre. Alla parola guerra lei ricominciò a tremare. Sosteneva che si combattesse solo  con le armi per la strada e che gli unici protagonisti fossero solo i soldati, per cui i più sensibili non potevano aver fatto 1000 guerre. Mi disse di non capire più nulla, voleva sapere che cosa fosse la guerra.  Affermai che la guerra non era solo una bruttissima lotta armata fra paesi, ma che ognuno di noi poteva combattere la propria lotta interiore, morale; ognuno poteva difendere se stesso da un nemico che poteva essere chiunque: una persona che non ci voleva bene, una malattia, un fallimento, una delusione, un qualcosa di cattivo per noi. Continuai dicendole che: “La corazza nasconde tanta dolcezza e voglia di dare. Ma è costretta dalla paura”.
Mi chiese che cosa fosse la paura. Le risposi che era il sentimento che probabilmente provava lei chissà da quanto tempo, per il quale era piegata su se stessa, curva e disorientata. Continuai  poi dicendo:” La corazza è difficile da levare ma è possibile.
La corazza è pesante, da soli non possiamo abbandonarla, affidiamoci a chi ci mostra onestà.” A questa parola ancora un altro quesito. Che  cos’è l’onestà? Le dissi che era un ‘atteggiamento morale, giusto e corretto. Ce l’ha chi è sincero e vero con noi. Lei mi rispose che avevo ragione,  che conosceva questa parola ma l’aveva dimenticata, non la usava  da molto tempo. Io ero scioccata ma capivo lo stato d’animo della donna.. e seguì: “La corazza scompare grazie a un cuore sicuro e forte capace di farla cedere. La corazza buttiamola insieme a chi è capace di amarci prima e senza armatura;
Chi sa andare oltre la nostra corazza, perché vuole scoprirci, portiamolo con noi senza più il peso di nessuna armatura”. A questo punto si mise a piangere. E mentre le sue lacrime e grida di dolore aumentavano, sembrava però prendere il sopravvento un’ enorme risata. Contemporaneamente il suo corpo cambiava sembianza. La sua postura prendeva una nuova forma, appariva come un bocciolo di un fiore che piano piano si stava schiudendo. Le sue braccia erano come petali enormi e lunghi. Era di nuovo dritta, bellissima e forte. La sua corazza era caduta e con lei  tutte le sue ansie e timori.
Il fumo davanti agli occhi non c’era più, la donna nemmeno, ma c’era invece quella brutta guardiana che mi invitava ad uscire dal museo perchè aveva smesso di piovere.
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